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    feroce e disperato; quindi si chiuse in preghiera e in meditazione per alcuni giorni.
    La notizia della disperazione dell Emiro giunse fino a Samarcanda: e dovette esser
    riferita in modi tanto drammatici che il suo vecchio maestro spirituale, Sayid Baraka,
    decise d intraprendere la traversata dalla Transoxiana al Caucaso per giungere fino al
    suo signore e allievo e confortarlo. Ma a sua volta non resse agli strapazzi del
    viaggio. Timur accolse la notizia con mestizia ormai rassegnata: i suoi quasi
    settant anni, ormai, gli pesavano tutti insieme addosso. «Il mio miglior amico mi ha
    abbandonato», commentò. Aveva il mondo ai suoi piedi; e, dall alto delle sue
    conquiste, si scopriva ormai solo.
    Baghdad addio
    Ma gli avvenimenti incalzavano senza concedergli soste. Baghdad, ormai ridotta
    quasi a un cumulo di rovine, era stata presa di nuovo, stavolta da Kara Yusuf capo dei
    Kara Koyunlu, i soliti  Montoni Neri . Timur spedì il nipote Abu Bakr, terzo figlio di
    Miran Shah, a riprendere la capitale mesopotamica: gli affidò non troppi soldati ma
    un esercito di tecnici e di maestranze: non sopportava che la santa e colta città
    abbaside fosse ormai distrutta, proclamava l intenzione di restaurarne le belle
    moschee e le celebri biblioteche.
    Il turbolento turcomanno abbandonò in effetti Baghdad, ma la città non poté più
    tornare all antico splendore. Ancora alcuni decenni dopo, essa veniva descritta come
    uno spettacolo desolante: i vasti palmeti seccati, i canali ostruiti, la vita devota e
    intellettuale finita.
    L Emiro restava nel Karabagh, cercava di tener impegnati se stesso e i suoi,
    fondava centri urbani e faceva scavare canali per disciplinare il corso dell Araxe; in
    un primo tempo si era dato alla persecuzione dei cristiani armeni e georgiani,
    distruggendo chiese e chiudendo monasteri; poi aveva cambiato idea e atteggiamento,
    anche perché i cristiani del Caucaso erano buoni e fedeli soldati. La morte del nipote
    e quella della guida spirituale avevano acuito le sue antiche inquietudini, forse i
    timori che, con l avanzare dell età, si facevano più cupi e numerosi. Riuniva di
    continuo saggi e dervisci, discuteva di teologia e pregava insieme a loro.
    Ritorno a Samarcanda
    Nella primavera del 1404 decise di rientrare nella sua capitale. Aveva forse avuto
    notizia di episodi di malgoverno e di corruzione: e il suo rientro in effetti fu
    accompagnato dalle consuete scene di giubilo e di un alto numero di arresti e di
    esecuzioni tra i funzionari emirali.
    Alla fine del 1404 giunse a Samarcanda anche l ambasciatore castigliano Ruy
    González de Clavijo. Il gran signore lo accolse con gioia e con curiosità; tra il
    settembre e l ottobre, nel dolce autunno transoxiano, don Ruy godé di un ospitalità
    straordinaria, tra feste e conviti; gli veniva sempre riservato un posto d onore vicino
    all Emiro. E si meravigliava alla vista di quel vecchio ormai quasi cadente, che aveva
    bisogno di esser sostenuto quando si alzava e saliva a cavallo, e che tuttavia
    partecipava instancabile ai banchetti - che erano del resto anche occasioni di scambio
    politico e diplomatico - trangugiando grandi quantità di carne e tracannando vino e
    kumiss, la bevanda alcolica tartara a base di latte fermentato.
    Poi, tutto finì d un tratto. L ambasciatore si apprestava a chieder congedo e
    avrebbe voluto rendere al signore una visita di commiato. Gli comunicarono con
    fredda durezza che l Emiro era ammalato e non voleva ricevere nessuno.
    Stava probabilmente davvero male. Ma non dava segni di volersi rassegnare alla
    malattia, né tanto meno all età. Dicono gli fosse caro un vecchio proverbio persiano:
    «Abbandona il mondo, prima che il mondo abbandoni te». Non riusciva tuttavia a
    trarre da quel saggio consiglio la giusta lezione. Al contrario, come pare accada
    sovente a chi sa di esser ammalato seriamente, moltiplicava le sfide al suo corpo
    debilitato: come se si divertisse a giungere fino al limite estremo, a sfidare il destino,
    a capire fin dove avrebbe potuto ancora spingersi nella veglia, nel muoversi, nel cibo,
    nelle bevande.
    Sognando la Città Proibita
    Ora che Bayazet era morto e che i nuovi sultani di Brussa e del Cairo gli
    sembravano personaggi insignificanti, non sentiva di dover spingere oltre le sue
    conquiste verso Occidente.
    La lontana, piccola, povera, barbara Europa non lo attirava. Come tutte le genti
    dell Asia, Tamerlano era soggiogato dal mito e dal fascino di Alessandro e di Roma:
    Alessandro però, per lui come per tutto l Islam, era ar-Rumi,  il Romano . Vale a
    dire il greco, il bizantino: perché, per lui come per tutti gli Asiatici, la vera Roma era
    la Neà Rime, la  Nuova Roma , Bisanzio. E ormai l aveva battuta, perché la
    considerava ostaggio degli Ottomani, che egli aveva umiliato.
    I suoi pensieri andavano sempre più alla Cina. Nonostante il  Figlio del Cielo che
    regnava a Pechino non fosse più il Gran Khan di tutti i Mongoli, i popoli della steppa
    continuavano a considerarlo come il loro signore eminente.
    Timur provava nei confronti del Celeste Impero un sentimento schizofrenico: da
    un lato una venerazione mista a rancore, perché se ne avvertiva in qualche modo e
    nonostante tutto vassallo; dall altro un risentimento che rasentava l inimicizia, perché
    nel nuovo sovrano Ming egli scorgeva l usurpatore che aveva osato umiliare la divina
    stirpe di Genghiz Khan. Una volta, a Samarcanda, aveva fatto cedere
    all ambasciatore della lontana e povera Castiglia il posto d onore riservato a quello
    cinese e aveva osato definire l imperatore «un brigante nemico».
    Eppure, gli annali imperiali cinesi mantengono fedele e puntigliosa memoria delle
    ambasciate che Timur inviava alla Città Proibita: lo aveva fatto più volte, nel 1388,
    nel 1392, nel 1394, sempre accompagnando i diplomatici con ricchi doni e con
    analitici resoconti delle sue conquiste, presentate come fatte nel nome del Figlio del
    Cielo. Nel 1394 aveva inviato alla corte di Pechino duecento splendidi cavalli,
    scusandosi per la modestia dell offerta. Inoltre, era sempre stato molto attento a che il
    commercio tra le sue terre e l Impero, attraverso la Via della Seta, fosse prospero e
    sicuro. Ormai, però, sentiva il suo tempo farsi breve: e, nel rafforzarsi della pietas
    musulmana che accompagnava il crescer della coscienza del suo prossimo incontro
    con Allah, aumentava la sua memoria del dovere del jihad contro i miscredenti. I
    Cinesi erano tali.
    Si preparava ormai all impresa più folle e più grande. Aveva inviato torme di ben
    disciplinati contadini, militarmente inquadrati, a seminare cereali lungo la rotta verso
    oriente; aveva precostituito sedi di tappa ben fornite di viveri e di materiali a Otrar,
    Almalik e Turfan; aveva fatto preparare centinaia di carri su cui far viaggiare le tende
    di feltro per gli alloggi e greggi di migliaia di cammelle pregne, in modo che la carne
    e il latte non mancassero mai.
    In marcia nel gelo della steppa
    Dal momento che per la Cina v erano alte montagne da valicare e grandi estensioni
    riarse e ardenti d estate, gelate d inverno, era ovvio e naturale che una spedizione [ Pobierz całość w formacie PDF ]

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